ABBAZZIA DELLA TRINITA' DI CAVA
Dalla porta a sinistra della chiesa si accede al Monastero dei Padri Benedettini. Dall'ingresso si percorre un ampio corridoio: a sinistra è la sala capitolare, restaurata nel 1632, cinta all'ingiro da stalli lignei intagliati e intarsiati, del 1540; pavimento in piastrelle maiolicate del 1777, proveniente dal monastero di Sant’Andrea delle Dame in Napoli. Alle pareti, affreschi del 1632, rappresentanti, sotto partiti architettonici, i fondatori degli ordini religiosi che hanno seguito la regola benedettina: di fronte, Sant’Alferio e San Benedetto; a destra, i Santi Giovanni Gualberto, Guglielmo, Bernardo Tolomei; a sinistra, i Santi Romualdo, Bernardo, Pier Celestino; sopra l'ingresso, cinque fondatori di ordini cavallereschi: Cosimo I granduca di Toscana, Alfonso I di Portogallo, don Diego Velásquez, don Gómez Fernández, Giacomo II d'Aragona; inoltre, medaglioni con diciotto Papi benedettini, cinque re e imperatori fattisi benedettini, le Sante benedettine Scolastica, Riccarda regina, Cunegonda, Agnese imperatrice. Nel mezzo della volta, San Benedetto che accoglie il re Totila, di Raffaele Stramondo (1940).
Subito a destra si passa nel suggestivo chiostrino, del secolo XIII, situato sotto la rupe incombente, su colonnine binate di marmi vari con capitelli romanici e archi rialzati. Sotto un arco, San Lodovico di Tolosa e Santo Stefano d'Ungheria, affreschi del secolo XV; lungo il lato nord del chiostrino sono tre sarcofagi romani, di cui uno del secolo III, adorno di geni alati sostenenti festoni, busti di defunti e maschere; un altro, pure romano, del secolo III-IV, con la caccia di Meleagro: vi sono poi due sarcofagi longobardi e uno quattrocentesco, con ippogrifi.
A sinistra, adiacente al chiostrino, è la grande sala del capitolo vecchio, gotica, del secolo XIII, in cui sono temporaneamente raccolti (1980) affreschi staccati dalla Cappella di San Germano nel Cimitero Longobardo, tra cui San Benedetto e seguaci e Giudizio Universale, attribuiti ad Andrea da Salerno, e Crocifissione del sec. XV; si trova inoltre un affresco del secolo XV (L'Arcangelo Michele tra i Santi Benedetto e Alferio), staccato dalla grotta di Sant’Alferio nella chiesa dell'abbazia. Per due arche ogivali, si entra nella cappella del crocifisso, rimessa in luce nel 1930, con avanzi del pavimento quattrocentesco: al 1° altare, Astanti alla Crocifissione e gruppo di pie donne, bassorilievo di Tino di Camaino. Nell'adiacente cappella, all'altare, Madonna col Bambino tra i Santi Benedetto e Alferio che presenta l'abate Filippo de Haia (morto nel 1331), della scuola di Tino di Camaino; sotto l'altare, paliotto marmoreo, del secolo XI, con croce, alfa e omega, colonnine e archetti, appartenente all'altare consacrato da papa Urbano II; a sinistra dell'altare, frammento della lapide commemorativa della consacrazione.
Si scende (nel 1° ripiano, sarcofago della regina Sibilla, moglie di re Ruggero II Normanno; 1150) nel cosiddetto cimitero longobardo, cripta del secolo XII, su colonne del secolo IX-X e pilastri cilindrici in muratura, di effetto assai suggestivo. Vi furono sepolti molti laici illustri; una lapide (apocrifa) ricorda Teodorico antipapa col nome di Silvestro III, relegato da Pasquale II nell'Abbazia, dove morì nel 1102. A sinistra si apre la cappella di San Germano (vescovo di Auxerre), del 1280, ove si trovavano, fino a poco tempo fa, affreschi del XV secolo, che di recente sono stati staccati.
Si risale verso il chiostrino e, percorso un breve corridoio, si scende al Museo, fondato nel 1953 e sistemato in tre sale appartenenti al palatium della fine del Duecento, destinato agli ospiti, in cui sono conservati numerosi reperti di epoca romana e altomedievale, tra cui si segnalano alcuni pregevoli bassorilievi di Tino di Camaino e del suo seguace detto Maestro di Cava de’ Tirreni, nonché un polittico di Andrea da Salerno e alcune tele di Luca Giordano.
Si sale poi all'Archivio e alla Biblioteca (vi sono ammessi solo gli studiosi). L'Archivio, in cui si entra per una bella porta marmorea, conserva oltre 15.000 pergamene, tra cui numerosi documenti longobardi e normanni, ed è di grande importanza per la storia medioevale dell'Italia Meridionale. È ordinato in due eleganti sale della fine del Settecento: Sala diplomatica e Sala dei Protocolli notarili (in tutto 177 volumi), contenenti documenti dei notai di Cava e di Nocera a partire dal 1468. Dal 1876 al 1893 furono pubblicati otto volumi col titolo Codex Diplomaticus Cavensis, relativi a 1388 documenti dal 792 al 1065. La Biblioteca, sistemata in tre sale, possiede importanti manoscritti membranacei e cartacei, 120 incunaboli, oltre 300 edizioni della prima metà del Cinquecento, in tutto circa 30.000 volumi e 8000 opuscoli. Notevoli soprattutto: una preziosa Bibbia, in scrittura visigotica, splendido esempio di arte decorativa del sec. IX; il Codex Legum Langobardorum e i Capitularia Regum Francorum, del secolo XI, con miniature di scene e personaggi della dinastia germanica; il codice contenente Beda, De temporibus, Annales Cavenses, Florilegium, con interessanti disegni dello Scriptorium dell'Abbazia, del secolo XI-XIII; il codice De Septem Sigillis di Benedetto da Bari, datato 1227.
ABBAZIA DI CASAMARI
Come testimoniano due iscrizioni trovate in situ e vari ritrovamenti (lastricati, mosaici, ecc.), venne fondata, forse sul posto di Cereatae Marianae, patria di Gaio Mario, nel 1035 da alcuni sacerdoti che adottarono la regola benedettina. Nel 1140 Innocenzo II vi introdusse i Cistercensi, che la ricostruirono integralmente e ne fecero uno dei centri culturali più fiorenti della regione, punto di irradiamento, con l’Abbazia di Fossanova, delle forme gotico-borgognone nei primi decenni del Duecento. Il periodo di splendore, iniziato con la consacrazione della basilica fatta, il 15 settembre 1217, da Onorio III, continuò sino all’inizio del XV secolo dopo di che seguì un’epoca di profonda decadenza. Alle vicende politiche Casamari restò quasi sempre estranea, ma purtroppo, per la sua posizione ai confini dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli, risentì varie volte delle traversie della storia. In particolare, nel 1417, fu teatro di uno scontro avvenuto tra Muzio Attendolo Sforza, favorevole alla regina Giovanna di Napoli, e Iacopo Caldora, partigiano di Braccio da Montone che combatteva per il papa; le truppe del primo diedero l’assalto al monastero dove gli avversari si erano asserragliati e lo conquistarono dopo una dura lotta durante la quale una parte del complesso fu gravemente danneggiata. L’Abbazia, trasformata nel 1430 da Martino V in Commenda, divenne appannaggio di cardinali che ne dilapidarono in gran parte i beni.
Nel 1717 vennero introdotti i Cistercensi della stretta osservanza, detti Trappisti. Nel 1799 fu devastata da soldati francesi in ritirata da Napoli che uccisero anche alcuni monaci. Nel 1850 Pio IX soppresse la Commenda e nel 1864 eresse l’Abbazia a congregazione autonoma. Nel 1929 è divenuta Congregazione “sui juris”.
Negli ultimi decenni il complesso è stato restaurato e riportato all’antico splendore. Ospita un Istituto Teologico per la preparazione di religiosi della stessa Congregazione e un Convitto scolastico; vi è inoltre un Osservatorio meteorologico-sismico e una farmacia che vende, con altri medicinali, anche specialità a base di erbe confezionate nell’abbazia. Una liquoreria prepara liquori fatti secondo le antiche ricette
ABBAZIA DI FARFA
L’abbazia fu fondata, sui resti di una più antica basilica devastata dai Longobardi nel secolo VI, nel 680, per opera di Tommaso di Maurienne (Savoia) con l’aiuto del duca di Spoleto Faroaldo II e di papa Giovanni VII. Grazie alla sua posizione strategica venne protetta dai Longobardi e dai Franchi; Carlo Magno volle che passasse alle dirette dipendenze della sua amministrazione. Dopo un periodo di splendore sotto i Carolingi, che raggiunse il suo punto più alto nella prima metà del IX secolo con l’abate Sicardo (830-41), nell’891 venne assalita dai Saraceni. Dopo aver resistito per 7 anni agli attacchi, l’abate decise l’abbandono del monastero, mandando alcuni monaci a Roma, altri a Rieti, e conducendo i restanti nella Marca Fermana ove fondò il paese di Santa Vittoria in Matenano, nelle Marche. Il monastero fu occupato dai Saraceni i quali ne fecero la base delle loro scorrerie. Il successore, l’abate Raffredo, allorché scomparve la minaccia saracena ritornò a Farfa, che trovò in completa rovina. Con la discesa di Ottone I in Italia (967 circa), l’abbazia riebbe una relativa unità e riprese vita grazie alla riforma cluniacense e all’opera dell’abate Ugo (997-1039). Egli organizzò la vita monastica e non trascurò gli edifici abbaziali, dove si svolgevano complesse cerimonie liturgiche secondo l’uso cluniacense. Sotto il suo successore Berardo I, Gregorio da Catino scrisse il celebre Regesto, il Chronicon, il Largitorio e il Floriger; sorse con lui il famoso scriptorium che produsse i codici della caratteristica lettera maiuscola. L’abbazia partecipò alle contese politiche, lottando contro i signori romani e in particolare i Crescenzi per difendere la sua libertà; favorita da Enrico IV e Enrico V, appoggiò la politica imperiale durante la lotta delle investiture, in contrasto perciò con i papi. Con il concordato di Worms (1122) e il conseguente ritorno sotto la giurisdizione papale, l’abbazia ebbe sminuita la sua importanza politica ed economica poiché i pontefici spesso avocarono alle loro finanze le risorse dell’abbazia, i cui conti venivano controllati da amministratori pontifici o da altri abati vicari. Al principio del ‘400, Bonifacio IX la costituì in commenda del nipote Francesco Tomacelli che vi introdusse monaci tedeschi. Dal 1421 al 1553 fu commenda degli Ors