a vita di Grazia Deledda, e l’opera, che ne costituisce quasi per intero la parte visibile, parrebbero costituire un “caso”, se ci si limitasse alla letteralità esemplare dei dati, senza reintegrarla nella trama d’un tessuto culturale ed esistenziale.
La nascita nella perifericissima Nuoro del 1876, la condizione d’autodidatta, seppure nel seno d’una famiglia borghese e acculturata, danno l’illusione d’una sorta di partenogenesi letteraria. In realtà , non va dimenticato che il canone delle letture e ispirazioni giovanili della Deledda non si limita alla pur ricca biblioteca paterna (si ha notizia d’un professore, ospite d’una sua zia, con al seguito casse di libri), né vanno sottovalutate le ricerche etnologiche compiute dalla Deledda su impulso del De Gubernatis, né ancora va trascurato l’influsso che senz’altro ebbero sulla giovane Deledda i dibattiti politici, sociali e culturali assai vivi nella pur effimera stampa periodica nella Sardegna dell’epoca.
D’altro canto, non si spiega l’interesse di pubblico e di critica per la sua narrativa d’ambientazione sarda senza rammentare di passata un precursore, Salvatore Farina, callido confezionatore a getto continuo di best sellers che inondavano le appendici dei quotidiani di tutta Italia a fine ‘800. All’incrocio tra il Verismo e il particolarissimo Decadentismo che in Italia ha come pietra di paragone D’Annunzio, l’opera della Deledda sembra quasi un risultato necessario, ancorché fragile, provvisorio e mai pienamente assestato. Il suo itinerario, del resto, rimane sempre assai personale, senza scosse, senza forti mutazioni di rotta e bruschi aggiornamenti, anche dopo il trasferimento, nel 1900, a Roma, dove risiede per il resto della sua vita.
razia Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871. Il padre, benestante, dopo la scuola elementare — unica istruzione formale ricevuta dalla scrittrice — assume un istruttore per guidare la ragazza nello studio dell’italiano e del francese. Proprio a causa della breve educazione regolare e della giovanile propensione per la letteratura d’appendice (Sue, Dumas, Invernizio), durante tutta la precoce e fortunata carriera, Grazia Deledda ebbe non pochi detrattori, che la giudicarono rozza e illetterata. L'unica eccezione di rilievo fu Luigi Capuana. Anche l’attribuzione nel 1926 del Nobel per la letteratura, non contribuì a dissolvere i dubbi e l’ostilità di una parte della critica, che ancora oggi continua a relegarla in una posizione di secondo piano tra gli scrittori del primo novecento italiano.
Inizia a scrivere giovanissima, pubblica la sua prima novella a quindici anni e, dopo poco, collabora con l’allora famosa rivista femminile «Ultima moda». Le sue ambizioni letterarie vengono duramente ostacolate in famiglia e criticate dalla retriva società nuorese. Ma Grazia non si scoraggia: invia anche in Continente le sue novelle a puntate, abbandona a poco a poco lo stile approssimativo e dialettale, approfondisce lo studio dei caratteri dei suoi personaggi e soprattutto inizia a connotarsi come acutissima osservatrice della natura che la circonda e dei costumi della Barbagia e di tutta la Sardegna. Il suo stile comincia a personalizzarsi e, pur riconducibile talvolta al verismo ottocentesco, si connota sempre di più per il marcato regionalismo.
Il suo primo romanzo Fior di Sardegna esce nel 1892, seguito da Anime oneste del 1895.
Nel 1900 sposa Palmiro Madesani, funzionario ministeriale, e si stabilisce a Roma dove rimarrà fino alla morte, trasferendosi, di tanto in tanto per trascorrere le vacanze, a Cervia, la cittadina sull’Adriatico a lei così cara e alla quale dedicherà pagine vibranti d’affetto e nostalgia.
A Roma vedono la luce, tra le altre, le opere: Elias Portolu, il suo capolavoro, Cenere, L’edera, Canne al vento, Marianna Sicra.
Nel 1926 riceve, seconda donna ad essere insignita di tale onorificenza, il Nobel per la letteratura.
Il suo romanzo autobiografico, Cosima, uscirà nel 1937, ad un anno dalla morte, avvenuta a Roma il 15 agosto 1936.
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Schematicamente, le sue opere, già dagli esordi, mirano alla pittura di caratteri, come traspare fin dai titoli (Anime oneste, 1895, La via del male, 1896). Le maggiori, poi, fra le quali ricordiamo Elias Portolu, 1900, Cenere (1904), Il segreto di un uomo solitario (1914), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), possono leggersi come lo sviluppo e la discussione di casi di coscienza, nell’alveo di un cattolicesimo terragno, confinante con una dimensione tutta prelogica. Seppur debitrici al sopravvenuto influsso dei romanzieri russi, sono opere da annoverarsi fra i molti tentativi, imperfettamente riusciti e rimasti senza seguito, di creare una moderna via italiana del romanzo.
Altre opere si succederanno, con una crescente intenzione autobiografica e introspettiva, e sempre con fortuna di pubblico, fino alla scomparsa dell’autrice, avvenuta a Roma nel 1936. Lascerà un’opera incompiuta: Cosima, che i curatori pubblicheranno col significativo sottotitolo di Quasi Grazia.
Il realismo della Deledda assorbe e in certa misura metabolizza anche ciò che contraddice al realismo. Sogno, magia, religione pesano sugli eventi quanto e più delle cause sociali ed economiche. Parallelamente, la ricerca di un bello scrivere mediano, affine a un livello discorsivo colto ma non dimentico d’un qualche classicismo, fa sì che la pagina deleddiana, anche quella più nuda, appaia stipata di apporti, denunciando una sorta d’horror vacui, di perenne inglobazione d’elementi.
Per altro, la renitenza tutta italiana a riflettere sull’artificialità del genere romanzesco (genere d’importazione, non si dimentichi), l’assenza di una tradizione matura che renda possibili le astuzie di Conrad e di James, ammette sviluppi solo in una direzione in cui l’artificio è del genere più immediatamente consentano alla cultura locale, quello che attinge da una parte al novellare d’ascendenza orale, dall’altra al melodramma. à fra queste linee di demarcazione che va individuata la cifra essenziale dell’opera deleddiana. Non meravigli dunque che una narrativa fondata su questi materiali di recupero abbia potuto suscitare l’ammirazione di un D. H. Lawrence, né che la Deledda sia stata ampiamente tradotta e abbia conseguito il premio Nobel nel 1926. Ritirato, come suggestivamente racconta Maria Giacobbe sulla scorta della stampa svedese d’epoca, senza l’ombra d’un sorriso.
OPERE PRINCIPALI
Fior di Sardegna (1892)
Racconti sardi (1895), Marco Valerio, 2001
Anime oneste (1895)
Elias Portulo (1903), a cura di Spinazzola, Mondadori, Oscar narrativa, 1998
Cenere (1904), Mondadori, Oscar narrativa, 1999
L’edera (1912), Mondadori, Oscar narrativa, 1999
Canne al vento (1913), Marco Valerio, 2001
Marianna Sirca (1915), Mondadori, Oscar narrativa, 1999
La madre (1920), Mondadori, Oscar narrativa, 1999
Cosima (1937), Mondadori, Oscar narrativa, 1998
A cura della Redazione Virtuale